Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Il temporale rispettoso
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 187, p. 3
Data: 7 agosto 1955


pag. 3




   Presso la Casa al Vento c'è un breve altipiano aperto su due valli spalancate e sfasciate che si stendono mollemente fino ai piedi dei lontani monti. In mezzo all'altipiano, un prato quasi rotondo, chiuso da una corona di alberi nel fior della gioventù. Chi ha piantato questi alberi mi somiglia: ama gli impensati accordi della diversità.
   Dietro la muraglietta di lauri, che mi protegge dal vento, un ippocastano frondoso e fresco dà principio alla cerchia; lo segue un bel pino di giusta chioma e vi cresce accanto un melo nano e magro che sembra un bastardo intruso in mezzo ai ben vegeti compagni. Ma il cerchio riprende subito degnamente con due robuste acacie folte di pendule ciocche e con un leccio nero e serio al quale fa contrasto il chiaro fusto di un altissimo pioppo che porta fieramente in vetta il suo cimiero di foglioline leggere e irrequiete. Al suo fianco si glorieggia un tiglio in florida crescenza e finalmente la corona si chiude con due annosi e venerandi cedri del Libano.
   Passo molte ore del giorno in questo prato, all'ombra dei lauri, ascoltando leggere o dettando o fantasticando. Ieri l'altro, mentre la mia giovane lettrice mi faceva gustare le pagine sul primo Rinascimento che si trovano nella eccellente Storia degli Italiani di Nicolò Rodolico, fui scosso all'improvviso dai ripetuti e rapidi rimbombi di un lontano bombardamento. Lì per lì non seppi raccapezzarmi e siccome l'aria tutt'intorno era limpidissima e il sole splendeva sopra di noi, pensai che si trattasse di qualche esperimento di nuove artiglierie, ma i rimbombi si fecero subito più distinti e più irregolari, si rivelarono come tuoni collerosi di un temporale in viaggio verso di noi. Infatti, a poco a poco, il cielo tra Firenze e Monte Morello s'era fatto bigio e, nel fondo, addirittura nero. Cresceva il fragore dei tuoni e l'impeto del vento e si sarebbe detto che di lì a pochi minuti le impazienti ondate della pioggia si sarebbero rovesciate sulle nostre teste.
   Accorrevano intanto le angiole responsabili per sottrarmi allo scroscio imminente, per portarmi in salvamento dentro casa. Ma io, d'accordo con l'imperterrita lettrice, volli rimanere al mio posto. Parve ad un tratto che il cielo avesse compreso il mio desiderio. La burrasca continuava la sua corsa tumultuosa, le esplosioni tonanti si facevano sempre più fitte e il cielo sempre più color fumo ma sul prato e sugli alberi che lo recingono si posava ancora il lume del sole, benchè un po' più pallido di prima.
   La tempesta, invece di venire dritta verso di noi, girò a sinistra con una lenta e larga curva, e investì Monte Senario, si avventò contro il convento dei Sette Santi e, dopo aver sfogata la sua furia contro quel che resta dell'antica selva, si precipitò nell'immensa conca del Mugello e si disperse, ormai fioca e stracca, contro gli ultimi Appennini.
   Il rabido temporale aveva percorso quasi tre quarti di cerchio intorno a noi senza che su questo umile altipiano fosse caduta una sola stilla d'acqua. Caso? Grazia? Prodigio?
   Medito a lungo, senza trovare risposta ma intanto il cielo era tornato tacito e sereno, il sole era felice di splendere sul filo d'erba e sul filo di paglia ed io mi sentivo sicuro, in alto, al riparo dei fulmini e dei diluvi, nella luce di un miracolo che non sembra miracoloso soltanto perchè si ripete ogni istante.


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